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Passivo è sempre meglio di attivo?

Strategie UCITS
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12 Ott 2021

Christian Prinoth, Chief Investment Officer


Uno dei problemi più importanti che un asset allocator deve affrontare consiste nello scegliere come implementare un’allocazione, ovvero in cosa investire effettivamente una volta deciso di assegnare una parte del patrimonio ad una determinata categoria di attivi. In prima approssimazione questo si riduce sovente alla decisione se investire attivamente (comprando fondi attivi o selezionando direttamente un portafoglio di titoli) o passivamente (attraverso fondi passivi quali ETF oppure futures). Negli ultimi 25 anni il pendolo si è spostato sempre più verso la gestione passiva. Un recente studio della Federal Reserve Bank di Boston1 ha analizzato la rilevanza crescente delle gestioni passive. Secondo lo studio, la percentuale di investimenti passivi sul totale dei fondi ed ETF statunitensi è passata dal 3% nel 1995 al 41% nel 2020, e si chiede se questa evoluzione comporti rischi sistemici, giungendo a conclusioni ambigue.

Quel che è certo è che la rilevanza crescente delle gestioni passive ha stravolto in questi 25 anni il modo di investire, sia dei privati che delle grandi istituzioni, con conseguenze importanti sull’offerta di prodotti finanziari. Si è ridotto il numero di fornitori (case di gestione) ed il costo medio dei prodotti. Gli ETF, sempre più numerosi, sono diventati lo strumento principe di qualsiasi asset allocator, spingendo, peraltro, ad una gestione molto più attiva dell’allocazione, facilitata dalla semplicità di scambio degli ETF. La ragione di questa evoluzione è chiara: da anni innumerevoli studi evidenziano le difficoltà dei gestori attivi nel creare valore “battendo il mercato” in maniera sistematica. Perché pagare laute commissioni che non sono compensate da maggiore performance? Tanto vale investire passivamente risparmiando commissioni.

Ma le cose stanno veramente così? A una prima occhiata sembra proprio di sì. Prendiamo per esempio l’insieme di tutti i fondi azionari europei2. La figura 1 mostra la distribuzione, anno per anno, della differenza di rendimento tra ciascun fondo e l’indice MSCI Europe.

Figura 1: distribuzione delle differenze di rendimento rispetto all’indice MSCI Europe dei fondi appartenenti alle categorie Morningstar azionari europei negli anni dal 2002 al 2021 (anno parziale). La linea rossa rappresenta il valor medio delle mediane di ciascun anno, pari a +1,84%.

Fonte: elaborazioni Quaestio su dati Factset e Morningstar

Se prendiamo la mediana di ciascun anno, e usiamo la media complessiva di tutti gli anni come indicazione sintetica dell’efficacia della gestione dei fondi, vedremo che negli ultimi 20 anni questi, al lordo delle commissioni, hanno battuto mediamente il mercato di +1,8% all’anno. Dunque, se vogliamo valutare la convenienza di un investimento in un fondo azionario, dobbiamo innanzitutto prenderne il costo, e sottrarlo ai rendimenti che ci attendiamo. Se un fondo azionario europeo costasse 1,8% all’anno (ragionevole per classi retail mentre per classi istituzionali sono più comuni valori tra 0,6% ed 1%), il nostro rendimento netto atteso in eccesso al mercato diventerebbe pari a zero. La categoria dei fondi azionari statunitensi, rappresentata nella figura 2, è più competitiva.

Figura 2: distribuzione delle differenze di rendimento rispetto all’indice S&P 500 dei fondi appartenenti alle categorie Morningstar azionari statunitensi negli anni dal 2002 al 2021 (anno parziale). La linea rossa rappresenta il valor medio delle mediane di ciascun anno, pari a -0,38%.

Fonte: elaborazioni Quaestio su dati Factset e Morningstar

In questo caso il rendimento lordo medio in eccesso al mercato scende a -0,38%, rendendo l’investimento in una gestione attiva ancora meno allettante.

Questi dati sembrano effettivamente confermare un giudizio poco lusinghiero per l’investimento in fondi. Tale valutazione non tiene però conto correttamente dell’eterogeneità dell’universo dei fondi. Una delle conseguenza meno visibili dell’evoluzione dei fondi negli ultimi decenni è la polarizzazione sempre più marcata tra fondi veramente attivi, e fondi che dichiarano di esserlo, ma alla verifica dei fatti non si discostano mai significativamente dal benchmark. Questo fenomeno è attribuibile in parte ad una propensione al rischio sempre minore di molti gestori in conseguenza alla spinta di grandi investitori all’eliminazione di modelli di remunerazioni che includano commissioni di incentivo, ed in parte anche alla reazione di molte case di gestione alla pressione sui margini, che ha spinto a sostituire team di gestione ampi e strutturati con modelli di gestione passivi o al più quantitativi, quindi con un “costo industriale” basso.
Appurato quindi che l’universo dei fondi nel suo insieme offre rendimenti netti medi poco appetibili, è lecito chiedersi se vi sono delle “sacche di eccellenza” per le quali vale ancora la pena pagare commissioni da gestione attiva. Detto diversamente, stare nella parte “alta” o “bassa” delle distribuzioni mostrate nelle figure 1 e 2 è casuale oppure è legato in qualche modo a caratteristiche distintive dei fondi? L’ipotesi che vogliamo verificare è se il fatto di mettere in atto una gestione davvero attiva sia la caratteristica distintiva che stiamo cercando. 

Per verificare questa ipotesi dobbiamo prima capire cosa significa “gestione attiva”, perché non esiste una definizione universalmente accettata del termine. Una prima definizione comunemente accettata intende per gestore attivo quello che modifica frequentemente la composizione del portafoglio, comprando e vendendo titoli in base alle oscillazioni quotidiane dei mercati (c.d. market timing). Una seconda definizione identifica invece come attivo il gestore che effettua una selezione molto concentrata di titoli in un universo molto più ampio. Individuare i rappresentanti del primo gruppo è difficile, senza analizzare in dettaglio le variazioni giornaliere dei portafogli di tutti i fondi. Inoltre, vi è una forte evidenza accademica che il market timing non sia in grado di generare risultati statisticamente percepibili. Ben diverso invece il caso di un gestore la cui attività di analisi conduce ad un portafoglio che diverge significativamente dalla composizione del benchmark del fondo, in particolare se lo fa focalizzandosi su poche posizioni concentrate. Quindi invece di tentare di misurare l’attività di market timing, oppure di utilizzare metriche come la tracking error volatility, che possono oscillare per numerosi motivi differenti e sono fortemente dipendenti dalle scelte di benchmark di ciascun fondo, utilizziamo un metodo molto più semplice e trasparente per separare i fondi veramente attivi da quelli passivi: il numero di titoli che ciascun fondo detiene mediamente in portafoglio. È opinione comune che un portafoglio azionario composto da meno di 50 titoli sia da considerare “concentrato”, mentre se ne ha più di 100 si può dire che sia eccessivamente diversificato e quindi difficilmente conseguirà rendimenti significativamente diversi dal benchmark.

La figura 3 rappresenta come variano alcune caratteristiche dei fondi azionari europei ed americani, se li raggruppiamo per numero medio di titoli. Innanzitutto, guardando il grafico più basso di colore verde, notiamo che solo pochi fondi (meno del 5%) hanno mediamente meno di 25 posizioni. Il grosso ha tra 25 e 75 posizioni, e c’è anche una discreta percentuale (circa 13%) che detiene più di 150 posizioni. Guardando il grafico centrale di colore arancione, si vede che c’è una relazione inversa tra numero di posizioni e rendimento. Infine, il grafico in alto di colore blu mostra che il costo dei fondi non varia significativamente, ovvero un fondo “passivo” nel senso definito in precedenza ha un costo solo lievemente inferiore a quello di un fondo “attivo”. La principale differenza tra Europa e Stati Uniti è nuovamente riconducibile alla maggiore efficienza del mercato azionario americano: solamente quei fondi che costruiscono posizioni davvero concentrate (meno di 25 titoli!) riescono a creare valore relativamente al benchmark. Ma negli Stati Uniti è ancora più marcato il fenomeno della presenza di numerosi fondi di fatto “passivi”, senza che questo si traduca in commissioni più basse, il che sorprende alla luce dello sviluppo del mercato degli ETF.

Figura 3: caratteristiche dell’insieme dei fondi azionari europei (sinistra) e statunitensi (destra), raggruppati per numero medio di posizioni in portafoglio. Dall’alto in basse, commissione media di gestione del gruppo, rendimento mediano in eccesso al benchmark e percentuale di fondi presente nel gruppo. Dati dal 2002 al 2021.

Fonte: elaborazioni Quaestio su dati Factset e Morningstar

La tabella 1 generalizza il dato della relazione tra numero di posizioni e rendimenti ad altre categorie di fondi azionari, e si può ben dire che il fenomeno sia generalizzato.

Tabella 1: Media dei rendimenti annuali mediani di una selezione di campioni di fondi, rappresentando sia ciascun campione complessivamente che suoi sottoinsiemi determinati in base al numero di titoli che ciascun fondo detiene mediamente.

Fonte: elaborazioni Quaestio su dati Factset e Morningstar

E sui fondi bond? Qui è diverso, il problema è nel maggior turnover dei fondi passivi rispetto a fondi attivi (quindi maggiori costi di transazione). Inoltre gli ETF hanno chiari problemi di liquidità, come si è visto dal premio/sconto sul NAV nei momenti di crisi di mercato.

Quanto sopra fornisce una risposta piuttosto chiara a chi si occupa di asset allocation e deve decidere come implementare un portafoglio. La risposta scontata di questi tempi è l’ETF: ormai abbondano prodotti con commissioni di gestione davvero contenute. Ma appena si va su asset class diverse dagli indici blue chip il costo sale rapidamente. A titolo di esempio, mentre un ETF di iShares su S&P 500 costa 7 bps, un ETF della stessa casa sull'indice MSCI World ne costa 20, ed uno sull’indice delle obbligazioni dei mercati emergenti ne costa 50. Alle commissioni di gestione occorre aggiungere lo spread denaro-lettera e le commissioni di intermediazione. E tutto questo per un prodotto passivo, che quindi per definizione non prova nemmeno a creare un rendimento in eccesso al benchmark (anche se stanno comparendo i primi esempi di ETF attivi, dove è da verificare a quale definizione di “attivo” corrispondano). La seconda possibilità è l’acquisto di un fondo, dove occorre ulteriormente decidere se puntare su fondi dichiaratamente attivi, oppure se investire in un fondo esplicitamente passivo. Nel secondo caso il costo dev’essere ovviamente paragonabile a quello di un ETF. Nel primo vi è invece la difficoltà, affrontata in precedenza, di identificare con successo i portafogli veramente attivi, per poi valutare attentamente se valga la pena di pagare il costo più elevato. Ma è indubbio che nel caso di focus su gestione attiva, valga la pena scremare rimuovendo i fondi di fatto passivi.

Quaestio segue, nella scelta tra ETF e fondi, una terza via, che consiste nel costruire mandati di gestione con gestori attivi di tipo “high conviction”, ovvero che costruiscono portafogli concentrati. In questo modo abbiamo accesso a tre benefici: (1) massima trasparenza sul portafoglio, e quindi la possibilità di valutare se il gestore sta davvero implementando posizioni attive e concentrate, (2) inserire, tra le fonti di rendimento del portafoglio di asset allocation, anche la voce di gestione attiva, (3) accedere a gestioni attive a costi estremamente competitivi, paragonabili a quelli di un ETF.

Note

1Kenechukwu Anadu, Mathias Kruttli, Patrick McCabe, and Emilio Osambela, 2020, “The Shift from Active to Passive Investing: Risks to Financial Stability?”, Working Paper, Federal Reserve Bank of Boston

2Fondi appartenenti alle categorie dei fondi azionari europei Morningstar. Si considerano ogni anno tutti i fondi della categoria, e per ciascuno si calcola il rendimento in eccesso rispetto all’indice MSCI Europe, dopo aver reintegrato le commissioni di gestione.
 

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